Giulio Divo
È vulgata comune il fatto che il mondo del lavoro stia cambiando sotto la spinta di innumerevoli trasformazioni economiche e sociali. Una delle più importanti, da questo punto di vista, è quella correlata alla sostenibilità. Negli ultimi anni, infatti, si è affermata una coscienza sociale ecologista e al tempo stesso permeabile alle trasformazioni di tipo tecnologico, al punto da lasciar intravedere la possibilità di realizzare quella che fino a non molti anni fa era considerata una sorta di “Mission impossible” dell’economia di mercato: lo sviluppo sostenibile.
Ovviamente la strada da percorrere è ancora lunga: basti pensare che uno degli indicatori ambientali più noti, l’Overshoot Day (si tratta di un calendario virtuale che indica il giorno in cui l’umanità ha raggiunto – e superato – la capacità di rigenerazione delle risorse naturali del pianeta) ha anticipato, nel 2022, la data al 29 luglio. Non possiamo poi dimenticare i trend di crescita demografica (con un saldo attivo di ottanta milioni di persone all’anno in tutto il mondo), la crescente domanda di energia anche da parte delle economie emergenti (ogni anno abbiamo un aumento di circa il 2,5%) e, quindi, non possiamo ignorare come il peso di questa massa umana e industriale non possa che impattare sulle risorse naturali. Non dobbiamo però nemmeno ignorare come l’Unione europea, da un punto di vista ambientale, abbia una legislazione all’avanguardia: ai sensi dell’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’UE, si indica esplicitamente come la lotta ai cambiamenti climatici sia un obiettivo esplicito della politica ambientale. Che cosa significa tutto questo? Che nel quadro di evoluzione economica è necessario implementare una serie di innovazioni a ogni livello, in modo che una coscienza verde si faccia strada in ogni processo decisionale e diventi una sorta di seconda natura della pianificazione industriale.
Da questo punto di vista possiamo ben dire che la legislazione dell’Unione europea pretende degli standard molto alti in termini di sostenibilità e le maglie sono destinate a stringersi sempre di più nel tentativo di ottemperare agli obiettivi indicati dai trattati internazionali. Tutto questo porta con sé un indotto: quello legato alla necessità di investire in formazione al fine di creare una coscienza ambientale diffusa, nel pubblico come nel privato. I green job rappresentano quindi un’opzione importante anche in termini occupazionali.
Ed è per questo che abbiamo voluto intervistare Elisabetta Marani, fondatrice di The Young Sustainability Network, una community globale che supporta chiunque voglia costruire una carriera nel campo della sostenibilità, attraverso una rete globale di giovani professionisti in questo ambito ed eventi con esperti.
Cominciamo allora a inquadrare il tema parlando delle “professioni sostenibili”. Come si stanno evolvendo?
Abbiamo avuto una trasformazione che io considero fisiologica. Siamo partiti da uno scenario tipo one person show, in cui tutte le competenze venivano in qualche modo riassunte da un unico protagonista, a una visione differente, in cui le stesse vengono suddivise a tutta la forza lavoro secondo il campo di applicazione e competenza.
Per fare degli esempi pratici, il team di rendicontazione finanziaria, si deve occupare sempre più anche di rendicontazione di ESG (Environmental, social, governance), l’ufficio acquisti dovrà avere il polso delle emissioni di CO2 nella catena di fornitura e così via. L’obiettivo è quello di avere dei manager di sostenibilità in tutti i rami, privilegiando una visione che definirei olistica. Trovo invece molto meno funzionale, per i motivi che ho detto, l’idea di un team dedicato: finirebbe con l’essere scollegato dalle altre realtà aziendali.
Partendo da questo assunto, possiamo dire che l’evoluzione delle normative fa sì che sia preferibile la formazione interna rispetto alla consulenza esterna?
In genere si ottengono i risultati migliori con un equilibrio tra i due. Sicuramente punterei principalmente alla valorizzazione del talento interno perché permette di sviluppare una cultura di sostenibilità aziendale che permette di raggiungere gli obiettivi. Al tempo stesso, se dovesse servire un know how specifico su temi ad hoc, gli esperti possono portare un valore aggiunto al momento del bisogno.
Possiamo fare un po’ di chiarezza su tre definizioni che spesso vengono usate impropriamente? Mi riferisco a “green skill”, “green job” e “greening job”.
Le green skill rappresentano un po’ il prerequisito, perché riassumono la predisposizione, il mindset e anche il know how relativo alla transizione sostenibile di un’azienda. Io le considero un po’ il kit attraverso il quale è possibile mettere insieme le esigenze di carattere generale e individuare i meccanismi che consentono di migliorare la sostenibilità ambientale dell’azienda stessa.
I green job sono i “lavori verdi” propriamente detti, come l’energy manager o il mobility manager. In ultimo abbiamo i greening job, ovvero lavori che fino a ora non avevano richiesto competenze di tipo sociale o ambientale perché avevano uno scopo differente ma che ora devono integrare anche queste competenze. Pensiamo al progettista di imballaggi: oggi deve essere esperto anche di packaging riciclabile. E questo è solo un esempio tra i tanti.
Sono i lavori di domani?
Tutt’altro: sono i lavori dell’oggi. Addirittura il 63% del fabbisogno di impresa e nel settore pubblico, che solitamente da noi è più resistente alle novità, riguarderà o riguarda già i lavori verdi. Si tratta proprio del lavoro del presente.
Che cosa serve a una azienda per accogliere totalmente la sfida della sostenibilità?
Io penso che la maggior parte delle aziende comprenda e apprezzi appieno l’imperativo del business sostenibile volto a massimizzare l’impatto positivo sociale e minimizzare quello negativo ambientale. Rimangono senz’altro dei limiti economici e tecnologici per una transizione green ma a mio avviso il vero investimento da fare è quello sul fattore umano, e cioè il talento.
Mi spiego meglio: non è facile implementare una transizione così radicale se non si hanno competenze all’altezza. Una recente indagine di LinkedIn mostra che la domanda di competenze green sia maggiore rispetto all’offerta della forza lavoro. Ci troviamo in una situazione per cui abbiamo meno offerta di persone dotate delle skill necessarie rispetto alle necessità aziendali e questo è un ostacolo di non poco conto nel perseguimento degli obiettivi di sostenibilità. Ecco perché penso sia indispensabile investire sui talenti interni, che dovrebbero essere formati attraverso training specifici. Inoltre, e qui riprendo il discorso fatto all’inizio, è importante che la crescita delle competenze sia attuata in parallelo in tutte le aree dell’azienda, garantendo così una corretta distribuzione delle competenze stesse.
Non esiste il rischio che “indirizzando” le proprie risorse umane verso competenze green venga meno un aspetto vocazionale e, quindi, ruoli di responsabilità vengano assunti da persone che hanno minore motivazione?
Dobbiamo fare i conti con il fatto che il futuro richiederà comunque di sviluppare queste competenze, quindi sarà necessario acquisire determinate skill se si vuole rimanere all’interno di un sistema che è orientato verso una transizione epocale. Dopodiché nulla vieta, a quegli impiegati che sentono un particolare interesse verso questi temi, di approfondirli e orientare le proprie scelte professionali in maniera conseguente. Ma è fondamentale che, al di là di tutto, sia ben chiaro all’interno delle aziende come sia necessario effettuare un aggiornamento di competenze, orizzontale e verticale.
Quali sono le figure che, attualmente, hanno maggiore richiesta in ambito sostenibilità?
Le aziende oggi chiedono di essere competenti su data management, fundamental sul cambiamento climatico ed engagement degli stakeholder. Queste competenze, quando si vanno a fare i colloqui, devono essere dimostrabili e vanno sottolineate nel momento in cui si propongono le proprie candidature. Però anche qui devo fare un’ulteriore precisazione: se si ha un desiderio reale di lavorare in questo ambito bisogna saper valorizzare la propria capacità di apprendimento rapido e quella di comunicare. Imparare velocemente è di fondamentale importanza in un mondo che si deve rinnovare alla luce dell’evoluzione tecnologica e dei possibili mutamenti normativi. La comunicazione rappresenta un’arma fondamentale non solo all’esterno ma anche all’interno della realtà lavorativa perché senza chiarezza e capacità di coinvolgere gli altri non è possibile portare avanti i progetti. Ma non è tutto: è necessario saper parlare a ogni realtà con il linguaggio più adatto al ruolo aziendale. Infine, penso che un ultimo punto importante sia quello di porsi di fronte alla progettualità con una mentalità fattiva. Non bisogna impegnarsi solo nel business case. I progetti devono essere portati avanti dalla fase pilota fino al decollo.
Quali consigli possiamo dare a chi si avvicina a questa realtà dei lavori green per la prima volta?
Una sfida con cui mi sono confrontata io stessa e di cui continuo a essere testimone tramite il lavoro che porto avanti con The Young Sustainability Network è la poca chiarezza sui diversi percorsi di carriera in sostenibilità e poca awareness sui ruoli che esistono, sia nel settore privato sia in quello pubblico.
La prima sfida è proprio avere difficoltà a visualizzare il tipo di lavoro che fa per te, in base al proprio background e competenze. Una volta entrati nel network, essendo comunque un campo emergente, trovare un mentor o parlare con una professionista in sostenibilità: sono tutti molto disponibili e c’è molta solidarietà e voglia di condividere la propria esperienza in questo spazio.
In secondo luogo, la varietà di percorsi possibili significa da un lato poter essere artefice e disegnare la propria carriera a modo proprio, dall’altro dover accettare l’incertezza del cammino. Ad esempio, io ho iniziato nel team di operations, sono passata nella funzione di CSR, mi sono occupata di reporting, e ora sono in funzione di procurement. Ogni passo è stato pesato e pensato, eppure spesso mi è capitato di interrogarmi su come improntare la mia carriera, se restare in un’industria e specializzarmi in essa, se cambiare funzione, se prediligere spostamenti orizzontali piuttosto che verticali, e via dicendo. Quando si parla di carriere di sostenibilità è difficile sapere quale sia la scelta giusta, ci si prendono rischi – che secondo me vale la pena prendersi – però sicuramente non è un percorso lineare e predefinito come può essere per altre professioni.
Abbiamo accennato a che cosa deve fare chi si vuole proporre nel mondo del lavoro. Ma chi è già all’interno non rischia di essere tagliato fuori da questa rivoluzione green?
È chiaro che bisogna rimanere professionalmente aggiornati ma, come ho detto, in questo particolare momento le vacancies riguardano competenze green in qualsiasi background. Non è mai stato facile passare a lavori green come adesso e la capacità di apprendere e comunicare sta avendo la meglio rispetto alla ricerca di figure particolari. Dopodiché l’offerta di corsi per ottenere specializzazioni in questo ambito è molto alta e quindi è possibile reinventare il proprio ruolo aziendale con maggiore facilità rispetto al passato. Non bisogna farsi intimidire se non si ha un background accademico in sostenibilità: la carriera green può essere facilitata dalle necessità aziendali, a patto di non essere timidi: non saranno i timidi a cambiare il mondo.